sabato 20 dicembre 2014

L'Universo Simulato

L'Universo è l'entità più grande della realtà fisica e può a seconda delle teorie essere infinito o no. In ogni caso è più grande dell'Universo Osservabile dall'Uomo. Infatti l'essere umano ha la possibilità di osservarne solo una porzione e cioè una sfera che ha come centro la Terra (in realtà l'osservatore, ma ad oggi non abbiamo la possibilità di mettere un osservatore, umano o no, a distanze significative dalla Terra) e come raggio 29 gigaparsec. Più o meno riusciamo a vedere zone dell'universo che sono distanti 93 miliardi di anni luce. Questo perché l'espansione dell'universo è più veloce della Velocità della Luce o, in altre parole, i fotoni partiti dalla parte dell'universo distante da noi più di 93 miliardi di anni luce sono rimasti indietro rispetto all'espansione dell'universo e, prendendo come punto di riferimento la Terra, devono ancora arrivare.

Inoltre ciò che vediamo ai margini dell'universo osservabile, cioè presso l'Orizzonte Cosmologico, è come era 93 miliardi di anni fa: infatti nel momento che guardiamo, non vediamo l'oggetto in sé ma la sua immagine di 93 miliardi di anni fa perché i fotoni che raggiungo la retina del nostro occhio non sono quelli attuale ma quelli partiti dall'oggetto 93 miliardi di anni fa. Questo è l'unico viaggio nel tempo che ad oggi può permettersi un essere umano.

Una interessante teoria scientifica recita che l'universo è in realtà una simulazione, cioè un ambiente virtuale costruito da qualcuno e nel quale l'Essere Umano, anche esso un prodotto virtuale, vive inconsapevole. Infatti per definizione un essere senziente che vive in una simulazione non ne ha la percezione e crede che l'ambiente in cui vive sia reale. Ma è davvero possibile costruire una simulazione del genere? Per gli esseri umani di oggi praticamente NO perché non hanno a disposizione concrete risorse tecnologiche, ma teoricamente SÌ. Innanzitutto scientificamente l'Universo, come qualsiasi altra cosa, è computabile. È da sottolineare che non è necessario simulare per intero l'universo, perché chi è nella simulazione non sperimenta in un dato momento l'intero universo. Solo nel caso il suo sguardo si volga a parti dell'universo (fatta salva la questione dell'osservabilità di cui sopra) la simulazione crea ad hoc quella parte dell'universo, per poi cancellarla subito dopo (e ricrearla insomma ogni volta che viene osservata). Una simulazione così fatta è del tutto coerente con la Scienza come la conosciamo oggi.

Ma non c'è proprio modo per distinguere una realtà reale da una simulata? In altre parole è possibile capire se stiamo davvero vivendo in una simulazione? I ricercatori Silas R. Beane, Zohreh Davoudi e Martin J. Savage1 hanno espresso l'idea che si possa scoprire la simulazione con un trucco: essi hanno infatti osservato che i modelli che simulano l'interazione chiamata cromodinamica quantistica (in pratica l'interazione tra i quark) sono basati su una griglia che attualmente si ferma a un livello di femtometri. È una buona risoluzione, immaginate una carta geografica con una scala estremamente dettagliata. L'idea è che se si arriva a una risoluzione in cui il modello è una perfetta replica della realtà fisica (come una risoluzione 1:1 per una carta geografica) e se a questo si aggiunge la possibilità di simulare porzioni sempre più grandi di spaziotempo, si giunge a a una simulazione non solo di atomi, ma anche di cellule, di esseri viventi compresi gli umani, di ambienti, di pianeti e così via, fino ad arrivare a quello che noi chiamiamo universo. A questo punto però gli scienziati hanno osservato che per quanto la simulazione possa essere potente è sempre basata su una griglia e questa griglia può essere osservata con alcuni trucchi. Un trucco ad esempio è vedere se i raggi cosmici hanno una distribuzione condizionata dalla griglia o no2. Nel primo caso la dimostrazione non sarebbe conclusiva ma certo richiederebbe di indagare l'ipotesi dell'universo simulato più a fondo. Ad oggi però non è possibile indagare i raggi cosmici col dettaglio necessario per osservare la distribuzione.

Va aggiunto a titolo di curiosità che se siamo in un universo simulato questo non condiziona né la nostra possibilità di costruire a nostra volta un universo simulato dove vivono esseri simulati né ovviamente che chi simula il nostro universo, compreso il simulatore di universo non sia a sua volta simulato! Infatti Nick Bostrom3 fa notare che è del tutto teorizzabile una sorta di catasta di simulazioni, in cui ogni universo simulato è prodotto in universo a sua volta simulato e così via. Va anche aggiunto, soprattutto per gli amici atei, che un simulatore di universo potendo comandare la simulazione assume caratteristiche di onnipotenza e onniscienza di religiosa memoria e che tutto ciò che è fuori il simulatore è letteralmente metafisica: infatti l'universo in cui funziona il simulatore di universo può essere o no simile al nostro e con leggi fisiche come le nostre.

Come al solito, quando si parla di cosmologia ci si affaccia su abissi che la mente umana fa fatica a gestire. Bisogna avere l'umiltà da ragionare e non partire mai da preconcetti, ma contemporaneamente continuare a tenere i piedi per terra. Simulazione o no le cose non cambiano e si continua a vivere la vita di ogni giorno.


sabato 13 dicembre 2014

L'equazione biopoietica

Ognuno di noi ricorda qualcosa dei rudimenti di biologia studiati a scuola. Ricorda ad esempio che la vita terrestre attuale è molto complessa e che in passato era molto più semplice. Le parole procariota e eucariota sono state ficcate a forza nella nostra mente e anche se la maggior parte di non ne ricorda più il significato ha una vaga idea che la vita primordiale era molto semplice, addirittura monocellulare.

Ma come successe che la materia inorganica si trasformò in vita? Questa domanda è uno dei grandi misteri irrisolti della Scienza. Definendo un essere vivente come una entità che ha la capacità di riprodursi e di riorganizzarsi in seguito agli stimoli ambientali e chiamandolo organismo si scopre che il passaggio da oggetto inanimato a organismo è tuttora avvolto nel mistero. Come è successo che della materia inorganica si è assemblata in un organismo e perché?

A questa domanda non c'è una risposta ma la migliore teoria scientifica indica che molecole di acqua, metano, ammoniaca, idrogeno e altri elementi se sottoposte a grandi energie e mantenute in un ambiente relativamente protetto tendono a formare aminoacidi, che sono alla base della vita organica. Famoso è l'Esperimento di Miller e Urey1. Da questo punto alla formazione di cellule c'è il buio totale.

In questo buio cerca di far luce Jeremy England2 del MIT con la sua "equazione biopoietica". L'equazione, del tutto corretta matematicamente, descrive come un gruppo di atomi residente in un ambiente caldo e umido se sottoposto a una fonte di energia tende a ristrutturarsi in modo da dissipare l'energia in modo più efficiente. E uno dei metodi più efficienti di dissipare l'energia è replicarsi in modo da dividere l'energia su una superficie e una massa maggiore! Tale processo di riorganizzazione della materia è irreversibile a causa del Secondo Principio della Termodinamica: come la temperatura del caffè in una tazzina e la temperatura dell'aria in una stanza tendono col tempo a diventare uguali così la materia nelle condizioni citate tende col tempo a diventare sempre più organizzata nel dissipare il calore e tali due processi non sono reversibili (il caffè non torna ad essere più caldo dell'aria né la materia torna ad essere organizzata in modo da dissipare il calore in modo meno efficiente).

Se il processo continua in modo indefinito l'autoorganizzazione diventa sempre più complessa e diventa vita come la conosciamo noi oggi.

Questa teoria è molto interessante, ma c'è un problema: mentre l'equazione secondo la comunità scientifica internazionale è del tutto corretta, secondo la comunità scientifica internazionale, (e se volete leggerla potete scaricarla qui) che sia reale, cioè a dire che descriva qualcosa che avviene davvero nella realtà, è ancora da dimostrare.

Questa dimostrazione, o la falsificazione di tale straordinaria teoria, è solo questione di tempo ed è quindi sufficiente attendere. Ma se fosse dimostrata la Vita apparirebbe come qualcosa di necessario per le leggi della fisica, mentre oggi ci si sorprende che in un universo governato dall'Entropia, cioè dalla omogeneizzazione della materia, sulla Terra la complessità non solo non sia diminuita ma sia aumentata in modo speciale, con la formazione di enormemente complessi organismi viventi.


martedì 2 dicembre 2014

Realismo depressivo

Immagino che tutti sappiano cosa sia la depressione clinica, cioè quella malattia che porta una persona all'inedia, alla catatonia, alla disperazione, all'annullamento.
Pochi sapranno però che esiste una teoria chiamata Teoria del realismo depressivo, che recita che la depressione lieve o media è una condizione dell'individuo indispensabile per una lucida e oggettiva analisi della realtà. Tale teoria è stata sviluppata da Lauren Alloy1 e Lyn Yvonne Abramson2 e ricorda molto la famosa battuta "Un ottimista è solo un pessimista che ancora non ha letto il giornale del mattino". In realtà la questione è più seria perché le suddette ricercatrici e altri dietro il loro esempio hanno organizzato molti test3 che hanno mostrato come un depresso (precisamente una persona a cui è stata diagnostica la depressione da un medico) è più accurato nella valutazione di sé, degli altri e dell'ambiente del non depresso che invece è prono a considerare ingiustificatamente se stesso come causa del proprio successo e gli altri o l'ambiente come causa del proprio insuccesso. Tali test sono comunque pochi e ben lungi dall'essere definitivi. Tuttavia un test con la risonanza magnetica ha mostrato con chiarezza una differenza nell'attivazione di alcune aree frontotemporali del cervello tra depressi e non depressi, differenza che non dimostra una nesso causale, ma una neurodinamica divergente tra depressi e non depressi.

La Teoria del realismo depressivo non è assolutamente provata ed è soggetta a molte critiche. Ad esempio i test4 hanno mostrato anche altre peculiarità del depresso come una sopravvalutazione delle capacità positive degli altri o un cambiamento in positivo dell'autovalutazione a distanza di tempo, caratteristiche non spiegate nella teoria. E poi ovviamente i test coprono una frazione infinitesimale della realtà quotidiana.
In generale quindi questa teoria rimane una curiosità neuroscientifica e ad oggi la Scienza medica indica chiaramente che chiunque ha frequenti pensieri depressivi, umore basso e demotivazione debba cercare l'aiuto di un medico5.
È vero d'altra parte che si sa molto poco, ancora, di questa malattia, però la ricerca va avanti. Da decenni si sa che ci sono differenze in alcuni neurotrasmettitori tra sani e malati e alcuni farmaci antidepressivi agiscono proprio su questi (ad esempio c'è una intera classe di farmaci che fa aumentare il livello di serotonina nel cervello6). In genere psicoterapia e terapie farmacologiche hanno oggi un buon grado di successo, anche se non del 100% e soggetto a ricadute. Recentemente è stato messo a punto un test del sangue per diagnosticare la malattia7, test che può essere usato nella stessa ricerca medica perché mostra chiaramente se una farmacoterapia o una psicoterapia ha effetti sulla depressione: in effetti ad oggi la depressione (o il miglioramento e la guarigione della stessa) è diagnostica dopo una intervista fatta dal medico al paziente, che può portare a errori di valutazione anche grandi.
Oggi la depressione è una delle malattie più diffuse al mondo e passi avanti nella lotta a tale patologia sono automaticamente passi avanti nel miglioramento della condizione di vita di centinaia di milioni di persone.

giovedì 27 novembre 2014

Protoindoeuropeo

Con protoindoeuropeo (abbreviato PIE) si intende un antico linguaggio ricostruito. Ricostruito significa costruito un'altra volta. Quindi c'era una volta una lingua protoindoeuropea di cui si sono perse le tracce? È quel che afferma una teoria linguistica dalla quale è poi scaturita la ricostruzione di questo linguaggio. Ma perché ricostruire il protoindoeuropeo? Perché si pensa che il protoindoeuropeo sia un linguaggio da cui sono derivati moltissimi dei linguaggi morti o attuali Europei e dell'Asia più vicina fino all'India. Ad esempio il latino e l'etrusco (e quindi l'italiano), il germanico (e quindi il tedesco e l'inglese), il sanscrito (e quindi lo hindi corrente). In effetti come fece notare per primo (1786) l'esperto di lingue indiane William Jones ci sono molte somiglianze tra greco, latino e sanscrito, le quali fanno pensare a un'origine comune. Anche tra lingue germaniche e lingue neolatine ci sono sorprendenti convergenze che rafforzano la teoria del PIE.

È interessante notare che in questo campo molto poco è provato, soprattutto perché questa lingua si è estinta e cioè trasformata prima dell'avvento della scrittura e quindi era solo parlata. Ed essendo solo parlata e ora morta l'unico modo per sperimentarla è tornare indietro nel tempo. Questa enorme difficoltà non ha scoraggiato gli studiosi dopo Jones ma anzi si sviluppò una intera branca della linguistica: la linguistica comparativa.

Oggi il PIE ha una sua fonologia (cioè la descrizione dei suoi suoni), una sua morfologia (cioè la descrizione della costruzione delle sue frasi) e una sua lessicologia (cioè la lista delle sue parole). A causa della già citata completa assenza di fonti le ricostruzioni differiscono leggermente da autore a autore ma naturalmente la convergenza è forzata dalle similitudini delle lingue conosciute. Ad esempio "due" in PIE è "d(u)wo" secondo Sihler e "duoh" secondo Beekes. È evidente che le differenze sono dettagli accademici.
È interessante a questo punto dare un'occhiata altre parole:

Uomo: *dhǵhemon-
Me: *H₁me-
Piede: *ped-
Cane: *ḱwon-
Morte: *mer-
In: *en
Nuovo: *néwo

Per approfondire è interessante e anche divertente la lista di parole presente sulla Wikipedia in lingua inglese1.

Ma perché i popoli primitivi avevano una lingua comune e noi uomini moderni ci siamo ridotti a parlare una infinità di lingue diverse? La risposta è semplice: gli esseri umani erano molto pochi e vivevano in pochi gruppi. Si pensi che al tempo degli antichi romani si stima che gli esseri umani fossero in tutto il mondo solo 300 milioni! Gli antichi romani, come si sa, parlavano il latino, una lingua derivata dal protoindoeuropeo e già molto matura. Quindi per trovare l'epoca del PIE si deve andare ancora più indietro nel tempo: si stima che l'indoeuropeo si sia trasformato in altre lingue al più tardi intorno al 4.000 ac, tuttavia altre stime si spingono indietro fino al 10.000 ac. E se la popolazione ai tempi intorno all'anno zero era di 300 milioni di persone doveva essere persino minore prima. Oltre a questa ridotta popolazione la frammentazione in piccole comunità alquanto isolate era molto rara e così lo era anche la frammentazione linguistica. Fu il successivo progresso della civiltà umana quello che consentì migrazioni vastissime e diffusione capillare di piccoli gruppi umani in tutto il mondo. Fenomeno che a sua volta determinò lentamente l'attuale divergenza linguistica.

Ma ora abbiamo un fenomeno opposto: la cosiddetta globalizzazione sta riducendo sempre più la distanza delle società umane e si ipotizza che ciò porterà l'umanità ad avere una convergenza linguistica che porterà a pochi linguaggi globali, come in effetti era nel remoto passato ma per motivi diversi. È il fenomeno dell'estinzione linguistica. In realtà si presume che alcune (poche) lingue soppianteranno le altre (tante) lingue ora esistenti da cui prenderanno dei tratti. In altre parole una lingua dominante si trasformerebbe perché, anche se soppiantasse decine e decine di altre lingue, riceverebbe da queste alcuni tratti, che ingloberebbe.

Avremo in futuro un neoindoeuropeo?

mercoledì 26 novembre 2014

Anidride carbonica

Un effetto collaterale delle attività umane della attuale società industriale è quello di immettere artificialmente nell'atmosfera cospicue quantità di anidride carbonica (o CO2)1 come scarto della combustione di idrocarburi (ad esempio la benzina bruciata dalle automobili per far funzionare i motori). L'anidride carbonica nell'atmosfera ha un effetto serra2, essendo come una cupola sopra la Terra: mantiene il calore sulla superficie evitando che esso si disperda nello spazio. Non è l'unico gas serra presente in atmosfera (ad esempio il metano è un gas serra ancora più potente) ma è il più abbondante.

L'effetto serra consente la vita sulla Terra ma ha un equilibrio molto delicato: troppo gas serra significa troppo calore intrappolato e quindi una temperatura terrestre troppo alta.

L'anidride carbonica ha un ciclo naturale di produzione e immissione in atmosfera: ad esempio è prodotto nei fenomeni di fermentazione (la fermentazione del vino produce anidride carbonica) o anche è emesso durante la respirazione animale e la fotosintesi vegetale. Questo ciclo ha prodotto nel corso delle ere geologiche l'equilibrio atmosferico attuale. Negli ultimi secoli però questo equilibrio è venuto meno a causa della produzione di anidride carbonica da parte delle attività antropiche: la quantità di anidride carbonica nell'atmosfera è aumentata e quindi è aumentato l'effetto serra.

La NASA ha recentemente diffuso un video ad alta risoluzione che mostra il ciclo dell'anidride carbonica: la scala colorata evidenzia immediatamente la quantità di anidride carbonica essendo il rosso e il viola le concentrazioni maggiori. Il video è prodotto mediante un modello matematico chiamato GEOS-53 e mostra il ciclo della CO2 completo di immissioni naturali e artificiali (il video simula il periodo da Gennaio 2006 a Dicembre 2006).

Ciò che salta all'occhio è la sproporzione enorme tra la produzione naturale di CO2 (ad esempio quella che si vede sul centro dell'Africa) e quella artificiale (nord-est degli Stati Uniti, Pianura Padana, est della Cina).

La produzione artificiale di anidride carbonica sta creando una atmosfera diversa, nuova, che determinerà (e già lo sta facendo) un clima della Terra diverso, nuovo.

martedì 25 novembre 2014

La prima astronauta italiana

Il 24 Novembre 2014 Samantha Cristoforetti (che per la cronaca è di ben 6 giorni più piccola di me) ha raggiunto la Stazione Spaziale Internazionale ed è diventata la prima donna italiana ad aver messo piede (e non solo quello) nello Spazio e sulla stessa IIS1. Prima di questi due invidiabili primati aveva quello di essere stata dal Maggio 2009 la prima donna italiana ad essere scelta per il compito di astronauta2.

L'astronautica italiana vanta altri sei elementi, qui citati in ordine di primo viaggio nello spazio: Franco Malerba (1992), Maurizio Cheli e Umberto Guidoni (1996), Paolo Nespoli (2007), Roberto Vittori (2002), Luca Parmitano (2013).

La quantità di astronauti che l'Italia ha offerto è leggermente inferiore a quella di Francia (9) e Germania (11), molto superiore al Regno Unito (solo 1), per citare gli altri tre paesi più popolosi dell'Unione Europea. La quantità è inoltre molto competitiva se paragonata a quelle di paesi molto più popolosi come la Cina (10), il Brasile (1), il Giappone (9), l'India (1), il Messico (1) e il Vietnam (1).

È quindi un indice di evoluzione sociale che ci vede in una buona posizione. Tuttavia non così è se analizziamo la quantità in termini di parità uomo/donna. Sappiamo che la popolazione mondiale femminile è poco minore di quella maschile (1,01 maschi ogni femmina nel 2012) mentre in Italia la popolazione femminile è leggermente maggiore (0,93 maschi ogni femmina nel 2013). Questo significa che se applicassimo questo rapporto alla lista di astronauti italiani avremmo dovuto avere quindi 3 o 4 maschi e 4 o 3 femmine, ma così non è (è da notare che anche gli altri paesi che possiedono astronauti mostrano un rapporto maschio/femmina a sfavore delle femmine). È evidente che c'è qualche fattore che cambia questo rapporto per quanto riguarda gli astronauti. Se andiamo a cercare questo fattore troviamo delle grosse difficoltà (premesso che si escluda in partenza che questa ratio sia "un caso" e che al crescere degli astronauti i due rapporti tendano a eguagliarsi, per la Legge dei grandi numeri): sappiamo che a livello fisico non c'è alcuna differenza tra un astronauta e una astronauta, perlomeno finora non se ne è trovata alcuna: in altre parole un maschio non è più o meno adatto di una femmina a fare l'astronauta. Bisogna quindi cercare tale fattore altrove. È possibile che tale fattore sia culturale e cioè semplicemente esistono meno astronaute perché le femmine sono culturalmente condizionate in un modo che non le fa avvicinare all'astronautica. È difficilissimo dimostrare scientificamente una cosa del genere, anche se abbiamo tanti indizi che possa essere possibile. Ma se fosse così, oltre all'aspetto morale (è Giusto o Sbagliato condizionare metà popolazione affinché non si avvicini all'astronautica? La mia personale opinione è che sia sbagliato) c'è da considerare l'aspetto numerico: praticamente ci priviamo del potenziale astronautico di metà della popolazione!

Nel 2014 noi italiani abbiamo portato una cittadina di sesso femminile nello Spazio ma sulla nostra Terra ancora non sappiamo perché se il rapporto maschio/femmina nella popolazione generale è 0,93 a 1 nella popolazione di astronauti sia 6 a 1. Possiamo ignorare questo fatto, come mi pare si stia facendo (non ho letto nulla la riguardo in queste ore) o possiamo indagare attivamente il fenomeno e rimuoverne le cause, se sono culturali. A voi decidere quale sia il migliore comportamento da tenere.